Slow Food Trentino Alto Adige Südtirol

Slow Food Trentino Alto Adige Südtirol
28 Gennaio 2022 admin

Abbiamo incontrato due persone che con ruoli diversi rappresentano l’associazione Slow Food in Trentino Alto Adige Südtirol: Tommaso Martini, fiduciario della Condotta Valle dell’Adige Alto Garda nonche portavoce dell’associazione, e Michele Nardelli, ricercatore sociale, che di Slow Food è stato membro del Consiglio nazionale e che recentemente ha firmato con Diego Cason il volume-inchiesta “Il monito della ninfea. Vaia, la montagna, il limite”.
Con loro abbiamo parlato di turismo responsabile, dal punto di vista di un’associazione che da molti anni, con un’autorevolezza riconosciuta, si occupa di ‘cibo buono’ e della sua diffusione, in Italia e nel mondo.

Cosa intende Slow Food per “turismo responsabile”?

Michele Nardelli:

Con ‘turismo responsabile’ si possono intendere forme molto variegate di turismo. La più cara a Slow Food è quella legata alla valorizzazione dell’ambiente e del territorio, perché ha a che fare con gli elementi stessi dell’esistenza di Slow Food, e cioè la volontà di preservare ogni forma di biodiversità (da materiale a culturale, spesso sovrapposte tra loro) e, soprattutto, di unicità.

Ogni territorio è unico e speciale nella misura in cui sa mettere a frutto tutto ciò che lungo il corso della storia ha fatto interagire l’uomo e la natura: saperi, mestieri, coltivazioni, tutti gli elementi che di volta in volta possono essere ingredienti del turismo sostenibile e responsabile. E a me pare che questa gamma di contenuti non sia più solo di nicchia, ma che cominci invece a prendere piede anche dentro il turismo tradizionale; che sia in grado, insomma, di iniziare a competere con il turismo più di massa. Ovviamente, se vuoi garantire qualità, il concetto di massa lo devi ponderare, perché molto spesso la qualità non s’accompagna alla quantità. Se vuoi salvaguardare un territorio lo devi anche tutelare dal punto di vista del carico antropico legato al turismo.

La pecora con gli occhiali
In questo senso, tra le proposte del patrimonio di Slow Food va segnalato quanto si sta facendo in val di Funes (Sud Tirolo), a partire dalla valorizzazione del presidio regionale della ‘pecora con gli occhiali’, la Villnösser Brillenschaf.

 

 Questa pecora era quasi estinta ma grazie in particolare all’attività di Oskar Messner, ristoratore nonché responsabile del presidio, si è sviluppata non soltanto un’idea di valorizzazione di quell’animale e di quella biodiversità, ma anche un progetto che cerca di fare sistema coinvolgendo tutta la valle. Il progetto è degno di nota perché la val di Funes è una valle piccola, che non fa parte dei circuiti tradizionali del turismo di massa sudtirolese (pur essendo vicina alla Val Gardena) e che grazie a queste sue caratteristiche e alla magnifica posizione ai piedi delle Odle, ha immaginato una proposta che mettesse insieme un gruppo significativo di operatori del territorio, ciascuno con qualcosa da dare dentro un progetto di turismo responsabile. In pratica, sono stati ‘censiti’ gli elementi più importanti della val di Funes, corrispondenti a un criterio di unicità, e poi ci si è costituiti all’interno del progetto Slow Food Travel legato alla valle.

Come è stato concepito il progetto? In val di Funes non ci sono grandi strutture alberghiere, il cuore pulsante del turismo sono i masi, ed è quindi un turismo legato intimamente al territorio. Con Oskar Messner lo abbiamo definito turismo della relazione: non un turismo che beneficia di un contesto ma che si mette in relazione con gli attori del territorio (oltre che con le bellezze naturali). Quindi si è creata una piccola filiera composta da una ventina di soggetti, ciascuno dei quali a sua volta con un’ancor più piccola filiera specifica, che costruiscono una proposta turistica incardinata sull’ospitalità del maso, un’istituzione che nello specifico in Sudtirolo ha avuto il grande pregio di conservare il tessuto sociale e di evitare, per esempio, un fenomeno che invece abbiamo in Trentino che è quello della parcellizzazione delle proprietà. Il ‘maso chiuso’ ha infatti la prerogativa di affidare la sua continuità a un solo componente della famiglia (in genere il primogenito maschio), cosa discutibile per certi aspetti, ma che a differenza di altri posti ha permesso di mantenere in buona salute il territorio. 

Tommaso Martini:

Aggiungo che fino a qualche anno fa si parlava di località turistiche come luoghi di villeggiatura, mentre adesso sembra che non esista più la destinazione turistica in quanto tale, e che qualsiasi luogo, potenzialmente, lo possa diventare. Questo genera il rischio di avere tanti posti uguali in aree diverse, ed è una questione fondamentale, che spesso non viene colta. Se tutto diventa destinazione turistica, subentra la necessità di distinguere un luogo dall’altro. A me è capitato di dover correggere un depliant di una valle trentina in cui si elencavano prodotti tipici senza aver verificato se quei prodotti fossero effettivamente tipici di quel luogo. Se manca un’attenta riflessione su se stessi è difficile potersi comunicare all’esterno e, come ci insegna l’esperienza della val di Funes, l’elemento cardine per qualsiasi ragionamento di prospettiva è la comunità. Quando si è in grado di creare una vera sinergia tra tutti gli attori di un territorio si forma un valore che viene percepito in modo forte all’esterno. Si può avere un turismo che cerca l’autenticità, che vuol dire ad esempio fare esperienze nel maso o nell’azienda agricola.

Portiamo in tavola la storia del paesaggio 

Tornando al tema più caro a Slow Food, che è quello del cibo, anche quando si va al ristorante ci si dovrebbe sedere a tavola avendo l’impressione di trovare nel piatto il paesaggio che ci circonda.

Nel turismo sostenibile uno degli elementi più importanti dovrebbe proprio essere la gastronomia, ma qui, oggettivamente, abbiamo dei problemi. Si è troppo spesso pensato che per cucinare un piatto tipico bastasse seguire la ricetta originale, sottovalutando il fatto che spesso nei rifugi troviamo piatti composti da ingredienti provenienti da ogni dove. Se è vero l’assioma che il turismo è uno dei pochi ambiti economici non delocalizzabile, questo dovrebbe valere per tutte le sue componenti, alimenti compresi. Il tema della materia prima è decisamente sfuggito di mano negli ultimi anni. Ci sono eccezioni e alcuni tentativi di riscoperta, ma in generale mancano il dialogo e la collaborazione tra aziende agricole e ristoranti. Questo è un altro punto su cui Slow Food cerca di spingere, e lo fa per molti motivi: per il valore intrinseco del turismo, per la sostenibilità dei piatti e per il legame con il paesaggio, che è frutto dell’incontro tra la natura e l’uomo, dell’incontro tra culture, del lavoro di secoli sull’ambiente. Il paesaggio ha un valore etico oltre che estetico, è fatto dalle attività agricole e di allevamento in montagna. Se cominciano a venir meno queste attività di “custodia” del paesaggio, perché, come si è visto negli ultimi anni, diventano economicamente insostenibili, perde di valore il territorio in cui lavorano le aziende della ristorazione.

Michele Nardelli:
Il turismo responsabile dovrebbe anche porsi il problema di riqualificare la domanda, oltre che l’offerta, perché la domanda molte volte coincide con stereotipi banali. Chi pensa alla montagna spesso ha in mente la montagna di Heidi, non la montagna fatta di fatica, contraddizioni, lavoro duro, giornate invernali che non finiscono mai, sveglie all’alba per accudire gli animali.
Riqualificare la domanda vuol dire cercare di mettersi in relazione con il turista. Quando si parla di turismo responsabile non si dà sufficiente rilievo a questa dimensione ‘relazionale’. Si pensa quasi sempre che il turismo responsabile sia quello delle buone maniere e del basso impatto ambientale.

In realtà c’è qualcosa di più:

si può entrare in relazione con il territorio, con la vita delle persone e con le loro difficoltà. Non dico che fare il turista in montagna debba necessariamente essere una scuola di vita, ma dovrebbe anche poterlo essere. Come esiste l’etichetta narrante dovrebbero anche esserci il ristoratore, l’albergatore, lo chef e il cameriere narranti. Tutti coinvolti nel far conoscere le caratteristiche di ciò che si sta mangiando. Non è un elemento da poco, perché corrisponde a una crescita: tu ristoratore non sei un distributore di piatti, sei quello che mi fa apprezzare il piatto e che mi dice “guarda che questo prodotto viene fatto da quell’azienda e se hai voglia dopo puoi andare a visitarla”. Si dovrebbe creare un sistema grazie al quale il turista è immerso in un contesto che sa raccontarsi. Questo riguarda, peraltro, anche una delle criticità che stiamo incontrando, e cioè il fatto che siccome la concorrenza del turismo di massa è spietata, bisogna ridurre il prezzo di vendita della propria offerta, a scapito spesso della qualità. Si generano situazioni in cui i prodotti dei presidi Slow Food non trovano spazio nelle strutture alberghiere o di ristorazione della zona. Può accadere, faccio per dire, che a Lavarone mi propongano un formaggio della latteria del fondovalle, anziché il Vezzena. Il problema può non essere di facile soluzione, perché ha dei costi. Bisognerebbe poter dire “se faccio un’offerta di qualità è giusto e ragionevole che possa chiedere una cifra più alta.” Tra l’altro, non parliamo di cifre in grado di fare davvero la differenza. E il turismo potrebbe così diventare educazione al gusto, perché assaggiare un frammento di Vezzena del presidio, come esperienza vale assai di più di mezzo chilo di formaggio industriale. È anche una forma di educazione alimentare, preziosa, considerando le patologie del nostro tempo. Anche in questo campo esiste un problema di riqualificazione della proposta su un territorio, un aspetto che va messo in relazione con la lungimiranza della classe dirigente, con il tema della formazione nel settore turistico e in quello dell’alimentazione, con le questioni legate alla continuità familiare, perché il rapporto con il territorio non sempre viene trasmesso dentro famiglie nelle quali spesso i figli non vogliono continuare il lavoro dei padri. È quello che succede nella gestione dei rifugi, che richiede uno sforzo enorme, che non sempre l’ultima generazione è interessata a portare avanti. Tutti temi che richiedono formazione, accompagnamento e sostegno.

Da questi punti di vista, come si muove e come sta il sistema turistico Trentino? 

Tommaso Martini:
Due stagioni turistiche invernali saltate qualche domanda l’hanno posta. Io ho avuto l’impressione che da parte di alcune località ci sia la volontà di seguire questi ragionamenti. Non per greenwashing, o per cavalcare un’onda, ma per necessità: dal momento che non riusciamo a fare turismo come abbiamo fatto per decenni, bisogna provare qualcos’altro. Nella mia esperienza ho visto luoghi belli e abbastanza intatti, dove non c’era turismo e dove si sta cercando di avviare questi processi, ma forse si è arrivati un po’ tardi e quindi la strada è difficile.  Ci sono situazioni in cui i produttori, piccole aziende agricole familiari, hanno affrontato immense difficoltà economiche sposando modelli produttivi che non erano propri della montagna, ma della pianura; territori che iniziano a muoversi ma che devono ricostruire anche un substrato culturale legato alle produzioni alimentari che negli anni è stato distrutto, perché queste aziende hanno scelto di non preoccuparsi di fare un prodotto venduto al supermercato purchè riuscissero a mantenersi in vita. E poi le differenze, enormi, tra vallate. Ci sono valli che hanno numeri impressionanti, dove da 5.000 abitanti arrivano a 600.000 presenze a stagione, e che non stanno facendo un cambio di paradigma. Altre valli, invece, stanno cominciando a muoversi ma, purtroppo, in passato hanno distrutto quel che c’era e adesso devono in qualche modo ricostruirlo.

Michele Nardelli:
Provo a rispondere facendo l’esempio di Trento e della sua montagna, che è il Bondone. Se c’è un’area che è stata banalizzata nel corso del ‘900 è questa, perché non si è mai davvero colto il fatto che abbiamo a che fare con un sistema naturale che materializza quell’idea del Trentino come ambito di relazione tra il Mediterraneo e le Alpi. Perché il fieno del Bondone, così come quello del Baldo, ha caratteristiche di particolare pregio? Perché il Garda è un ecosistema unico, che determina la peculiarità della Valle dei Laghi, ma soprattutto del Bondone, che dovremmo riconsiderare come un sistema naturale che inizia sul Palon e arriva al Monte Stivo, un percorso che a piedi si può facilmente percorrere. Dentro questo territorio, che raggruppa decine di comuni, si ritrovano le caratteristiche dell’incontro tra il Mediterraneo e le Alpi. Invece, l’offerta turistica si riduce in sostanza alla proposta sciistica (ammesso che ci sia la neve). Questa è l’unica prospettiva per una montagna bella ma invecchiata male, in crisi da sempre perché deve competere con località molto più attrattive e sempre più facilmente raggiungibili.

Tommaso Martini:
Questi temi hanno a che fare anche con l’importanza crescente del turismo di prossimità, perché è evidente che un turismo di qualità lo puoi fare anche a poche decine di km da casa, e che si possano vivere esperienze uniche anche senza prendere l’aereo. Il turismo di prossimità è un bacino inesplorato, che è stato scoperto durante la pandemia e che è estremamente interessante dal punto di vista economico.
Un altro tema che riguarda il modello dello slow travel è l’integrazione nelle aziende tra reddito ‘rurale’ e reddito ‘turistico’. Anche questo è un fatto importante per i motivi di cui sopra: mantenere una famiglia con la mera attività agricola in montagna diventa difficile a meno che non si facciano delle scelte al ribasso, che diventano poi deleterie da altri punti di vista. Integrare il reddito con l’offerta turistica è qualcosa che già sta succedendo, ci sono aziende creative, come ad esempio quella che fa gran parte del proprio fatturato producendo formaggio di capra e integra il reddito organizzando passeggiate per i bambini con le capre. 

Michele Nardelli: 
C’è una cosa che mi ha colpito nel caso della Val di Funes: tutti i soggetti che vengono coinvolti in queste attività, dentro quella rete di cui parlavo, sono persone che hanno mantenuto il loro mestiere, continuando a fare gli agricoltori, gli allevatore, gli artigiani. Vuol dire che il turismo può diventare una forma di integrazione del reddito, non una sostituzione della precedente attività, e questo è davvero importante. Tempo fa feci un viaggio a Pantelleria, che è nota per la produzione di capperi. La pianta nasce spontaneamente ma va protetta dalle intemperie, e Pantelleria è l’isola del vento. È un lavoro complicato, faticoso. I produttori locali si chiedevano che senso avesse continuare questa attività quando basta affittare un appartamento a stagione per guadagnare allo stesso modo. Il ragionamento si può comprendere, ovviamente, ma così si va a perdere biodiversità preziosa.  In questo senso servirebbero politiche di sostegno, che comprendano la fatica che si fa nel rimanere su alcuni territori mantenendo in vita colture minori, e riconoscano un sostegno, per continuare a garantire il carattere vero e unico di quel territorio, che altrimenti scompare.

Clicca qui per scoprire l’associazione Slow Food Trentino Alto Adige Südtirol!