INTERVISTA A FRANCESCA FORNO

INTERVISTA A FRANCESCA FORNO
20 Giugno 2023 admin

Francesca Forno è professoressa associata presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. Ha scritto sui temi della partecipazione e degli stili di vita sostenibili e ha condotto ricerche sul consumo critico e collaborativo. I suoi lavori più recenti riguardano le reti di approvvigionamento alternative (come i Gruppi di Acquisto Solidale) e il rapporto tra governance alimentare territoriale e coinvolgimento dei cittadini. È responsabile del progetto europeo PLATEFORMS sulle pratiche alimentari, per l’individuazione di meccanismi che facilitino l’adozione di diete “sostenibili”.  È responsabile per gli aspetti scientifici di Nutrire Trento, un progetto promosso da Comune e Università per rendere consumo e produzione di cibo più sostenibili, accorciando la filiera e riducendo gli sprechi (www.nutriretrento.it).

Nutrire Trento è un progetto su scala urbana. In che modo le città possono contribuire al cambiamento?

Le città sono molto importanti, perché sono i luoghi dove passiamo la maggior parte del tempo e dove facciamo la maggior parte dei nostri acquisti, compresi quelli alimentari. Non possiamo puntare a un cambiamento degli stili di vita senza che la città ripensi sé stessa per offrire pari opportunità a tutti, per rendere la sostenibilità più praticabile. Così come non puoi dire ai cittadini di usare meno l’auto per piccoli spostamenti e usare la bicicletta se non fai le piste ciclabili, lo stesso vale per il cibo. Non puoi chiedere ai cittadini di fare i salti mortali per comprare cibo prodotto nel territorio, di stagione, che riduca l’impatto ambientale dei lunghi trasferimenti, se poi questo cibo non fai in modo che sia accessibile a tutti e non soltanto a chi può recarsi nei negozi specializzati dove spesso questi prodotti costano di più.

Oppure di conoscere e di frequentare un GAS…

I consumi alimentari che rispettano la dieta sostenibile iniziano a radicarsi in piccole fasce della società, generalmente più benestanti e culturalmente informate, già dagli anni settanta, e da qui iniziano a svilupparsi i primi negozi specializzati, dove però questo tipo di cibo è spesso più caro. Per molti versi i Gruppi di Acquisto Solidali (GAS) nascono per rendere più accessibile il cibo, per usare uno slogan spesso citato in questi ambiti “buono, pulito e giusto” a un più ampio gruppo di persone; lo rende più accessibile come prezzo e come disponibilità logistica. Anche in questo caso stiamo tuttavia ancora parlando di una quota molto ristretta di persone. Per allargare questi consumi a fasce più ampie della popolazione servono infrastrutture che solo chi governa la città può realizzare, ad esempio modificando gli appalti delle mense delle scuole, che sono pubbliche e quindi raggiungono tutti, ricchi e poveri, istruiti o meno istruiti. Oppure promuovendo i mercati del contadino, concedendo spazi e informando la cittadinanza…

E con progetti come Nutrire Trento…

Nutrire Trento ha sempre avuto tre direzioni operative: aumentare la sensibilità del consumatore, che va informato; aumentare la sensibilità del produttore, che va incentivato nella “transizione”, cioè a cambiare le sue pratiche produttive; e infine occuparsi di logistica, perché questo cibo deve raggiungere e essere disponibile in città per i consumatori! Ad esempio, poco tempo fa, con il mio gruppo di ricerca, per un progetto europeo in cui siamo coinvolti, abbiamo svolto delle rilevazioni in due grandi supermercati della città e ci siamo imbattuti in mele che provenivano dalla Nuova Zelanda. Non dobbiamo diventare “fondamentalisti” e mangiare solamente prodotti del territorio. E’ chiaro che viviamo in una società che ha dei bisogni variegati, però ci sono cose verso cui va prestata attenzione perché sono proprio irrazionali. Non si tratta di privarci di ciò che ci piace, ma di orientare i nostri consumi quotidiani in modo più attento, ponendo attenzione alle conseguenze dei nostri consumi impegnandosi a mitigare gli impatti antropici.

Come giudichi l’esperienza di Nutrire Trento fino a ora? E come ha risposto la città? 

Nutrire Trento è un bellissimo progetto il cui primo passo è stato quello di costruire un tavolo di lavoro. Inizialmente abbiamo proceduto mettendo insieme tutti i soggetti che già adottavano o promuovevano pratiche di consumo sostenibile. L’idea era che stando assieme si poteva aumentare la forza del messaggio coinvolgendo anche la pubblica amministrazione, chi poi potrebbe generalizzare questa pratiche “infrastrutturandole”. Quindi se il tema era porre delle basi, questo mi pare che sia riuscito.  Sono molto soddisfatta.

Non va scordato peraltro che in questi anni abbiamo dovuto, come tutti quanti, affrontare il Corona virus. Per Nutrire Trento questo ha significato mettere in moto una specifica progettualità. Durante il lockdown abbiamo ad esempio facilitato l’incontro diretto tra i produttori del progetto e i cittadini di Trento che abbiamo chiamato ‘fase due’ in sintonia con la seconda fase della pandemia. Con la chiusura del mercato di Piazza Dante, i produttori non sapevano dove vendere i propri prodotti, abbiamo organizzato una piattaforma (non on line, ma fisica) che raccoglieva i listini ogni settimana e li mandava alle persone che avevano aderito all’invito dell’amministrazione per raccogliere gli ordini e inviarli ai produttori che, infine, consegnavano il proprio prodotto a casa delle persone. La ‘fase due’ è stata importante, perché si sono generati dei veri e propri rapporti di amicizia tra produttori e consumatori, relazioni che hanno poi alimentato molte altre progettualità. 

Facendo un passo indietro, ricordo che poco dopo il mio arrivo a Trento mi era stato proposto di incontrare il sindaco Alessandro Andreatta, che ha approvato subito questa idea e dopo pochi giorni se ne è potuto parlare con il Rettore. In breve l’idea viene sottoscritta all’interno del progetto UniCittà, che unisce Trento e la sua Università in una serie di progettualità comuni. Entrambi i soggetti hanno evidentemente riconosciuto la valenza di questa idea, che in realtà non si restringe solo al cibo perchè ripensare al modo in cui ci nutriamo rappresenta il primo passo per ripensare tanti altri aspetti della nostra vita che riguardano la sostenibilità. Il cibo ha a che fare con la salute, la giustizia sociale, la mobilità, la cultura, il paesaggio. La lista potrebbe essere infinita perché il cibo ha a che fare praticamente con tutti gli aspetti della nostra vita. 

Per quattro anni il tavolo si è riunito tutti i mesi, e anche questo non era scontato. C’è stato un andare e venire di attori, ci sono stati anche dei conflitti, però ha resistito quattro anni. C’è da dire che già nella scorsa consiliatura, il Comune di Trento ha creato un ufficio agricoltura e promozione del territorio a cui è stato affidato il progetto, avvicinandosi in qualche modo a quanto è stato fatto a Milano, dedicando del personale. E anche questa è una scelta, è la stessa scelta che ha fatto Milano, anche se poi Milano, che è una realtà ovviamente più grande, ha avuto la possibilità di creare partnership per finanziare specifici progetti specifici, come quello con la Fondazione Cariplo. Noi non siamo ancora a quel livello, però l’aver dedicato risorse umane del Comune è stato fondamentale per garantire la continuità di Nutrire Trento. 

Altro segnale molto importante è stato l’inserimento di Nutrire Trento e le politiche del cibo all’interno degli obiettivi indicati dall’attuale sindaco. Quindi è come se il lavoro del Tavolo abbia in qualche modo aiutato la politica locale del cibo ad entrare nel piano di programma dell’attuale giunta.

La comunità trentina ha reagito molto bene, è indiscutibile. E anche se a volte mi accorgo di essere un po’ critica rispetto ai passi che non sono stati fatti, ad esempio siamo ancora ben lontani da una vera e propria food policy per la città, è vero anche che non si cambiano le cose dall’oggi al domani. Bisogna avere pazienza e continuare ad aiutare e sollecitare l’Amministrazione. A questo proposito, credo che Nutrire Trento abbia anche contribuito ad aumentare la fiducia e il dialogo tra cittadini e amministrazione comunale, e questo è un fattore di estrema importanza per i passaggi successivi.

Questo, dunque, è stato il primo step. Quale sarà il secondo?

Ora c’è da fare un passo in più, che è quello di creare una politica locale del cibo che per definizione deve essere trasversale ai diversi assessorati. A Milano, per esempio, dove c’è forse ancora l’unica vera politica locale del cibo, o quantomeno la più importante in Italia, la competenza è in capo alla vicesindaco, perché c’è bisogno di fare interagire i vari assessorati. Una buona politica del cibo tiene insieme economia, turismo, servizi sociali, istruzione: in realtà la politica del cibo obbliga in qualche modo i vari assessorati a lavorare insieme, e non come corpi separati. 

Questo secondo step che vede un maggiore protagonismo dell’Amministrazione si può dire che è appena iniziato. Proprio qualche settimana fa, si è infatti compiuto una sorta di passaggio di consegna tra i due soggetti università e città. Questo non vuol dire che l’Università non sarà più presente, lo siamo con la stessa convinzione e impegno iniziale, ma ora c’è bisogno che chi governa il territorio, faccia la sua parte mentre noi continueremo a fornire la nostra competenza, supportandolo con le nostre ricerche, trasferendo tutto ciò che siamo in grado di trasferire, mantenendo il legame di Trento con altre città che compiono lo stesso percorso all’interno della Rete delle politiche locali del cibo del cui comitato peraltro faccio parte. Ricordo che anche grazie al trasferimento di ciò che ho appreso tramite le mie ricerche è stato possibile creare il rapporto con altre città e dunque firmare il Milan Urban Food Policy Pact, la rete di città impegnate nella realizzazione di politiche locali del cibo. 

Quindi è questa la nuova fase di Nutrire Trento. Una fase dove cambiano i pesi, una sorta di passaggio di testimone al Comune, simbolicamente importante, che da adesso in poi convocherà le riunioni dentro le sue stanze, e insieme a noi e a tutti gli attori del cibo, cercherà di andare a una definizione di una politica locale del cibo. 

Tornando al tema della città e delle infrastrutture, credi sia possibile integrare maggiormente filiera corta e grande distribuzione o sono due mondi destinati a marciare separati? 

Bisogna trovare soluzioni per camminare assieme. Nutrire Trento ha seguito nei fatti un approccio multilivello, secondo il quale le innovazioni sociali prendono avvio da nicchie di innovazione che poi, se queste sono efficaci, possono diffondersi e coordinarsi arrivando ad influire su chi governa, dando la possibilità di avere vere e proprie politiche

Come scelta metodologica, e sulla base di una mia precedente esperienza abbastanza simile fatta in collaborazione con il Comune di Bergamo (www.bergamogreen.net), inizialmente abbiamo fatto la scelta di contattare e coinvolgere tutte quelle nicchie di innovazione che già lavoravano sulla filiera corta: i gruppi d’acquisto solidale che avevano già delle mappe e un sistema logistico, il tavolo dell’economia solidale con i suoi disciplinari e una propria mappa, organizzazioni anche piccole e specifiche, come le “donne in campo”, il Bio distretto, ecc. Siamo partiti da loro e con loro. Il passaggio successivo è stato quello di aggregare anche organizzazioni più grandi, quindi Coldiretti, Cia, Confagricoltura, in seguito sono arrivati altri soggetti come Trentino solidale, che ha aiutato per esempio ad interessarsi anche alle fasce meno abbienti della popolazione.

L’allargamento deve essere graduale, ma al Tavolo si dovrebbero sedere tutti i soggetti coinvolti nella filiera del cibo, compresa la grande distribuzione. A Trento, per esempio, c’è tutto il circuito delle famiglie cooperative che è molto radicato sul territorio, ma dove i prodotti ecosolidali sono molto limitati. In un tavolo allargato, dove ci sono diverse competenze, questi attori sono indispensabili. Indispensabile sarebbe capire le difficoltà che hanno nel riorganizzare la propria filiera distributiva e di approvvigionamento, perché il circuito delle famiglie cooperative sono strutture organizzate che tendono alla routine. Il tema del cambiamento, all’interno di qualsiasi organizzazione, richiede tempo e partecipare al tavolo aiuterebbe questi soggetti ad avere una motivazione anzitutto di senso, a ripensare  il proprio ruolo in un processo di transizione ecologica, ma c’è bisogno che il tavolo stesso sia più forte e sicuro della sua identità e missione. Alle volte le “nicchie” di innovazione sono gelose di ciò che hanno creato e temono di essere “corrotte” se inserite in processi più ampi. L’allargamento non è un passaggio semplice, anche se lo ritengo necessario.

Per esempio, Nutrire Trento ha sin dall’inizio come unico criterio per l’adesione dei produttori il contatto diretto con i propri consumatori. Contatto che può avvenire attraverso un GAS, perché si partecipa al mercato contadino o perché si consegna a domicilio, ma i produttori non necessariamente devono essere biologici, e questo ha creato una frattura. È vero che la produzione biologica ha un impatto inferiore, ma è vero anche che bisogna informare e rendere possibile per i produttori avviare un processo di “conversione”, perché fare il biologico non è come fare il convenzionale. L’idea è infatti è quella di andare “oltre la nicchia” ampliando il cerchio della ecosolidarietà. I produttori biologici erano d’altronde già stati censiti dalla rete dell’economia solidale, non serviva la stessa mappa, serviva mettere questi produttori insieme a quelli che già hanno fatto un passo rispetto all’accorciamento della filiera ma che non sono biologici e che, magari, stando insieme ai biologici potevano essere aiutati nella conversione. Del resto la produzione biologica qui a Trento è abbastanza limitata, quindi se vogliamo davvero una transizione, come tra l’altro ci indica anche l’Europa, verso un sistema che sia più attento alla naturalità del prodotto e all’impatto ambientale, abbiamo bisogno di contaminare e di non chiuderci nelle nicchie di chi ha già fatto questo passo.

Il tema della disintermediazione ostacola l’accordo con la grande distribuzione?

Non necessariamente. Queste nuove politiche vogliono migliorare la qualità del cibo che circola nella città, ma non sono contro la grande distribuzione. La grande distribuzione è necessaria ed è necessario che diventi più sostenibile. Anni fa, una ricerca molto grande condotta su più di 1600 famiglie coinvolte nei gruppi d’acquisto solidale in Lombardia, abbiamo visto che in media viene spostano dalla grande distribuzione all’approvvigionamento diretto il 13%. Tutto il resto della spesa si tende a farlo nel supermercato… 

L’ottimo sarebbe avere nel nostro territorio un sistema del cibo maggiormente differenziato. Attualmente coordino il gruppo di ricerca italiano di un progetto europeo, FOOdIVERSE, che punta molto sull’idea che i sistemi del cibo più “resilienti” sono quelli più al loro interno più differenziati, dove c’è meno standardizzazione in ciò che si consuma e produce e in cui il sistema distributivo fa la sua parte. 

In questa logica si riconosce quindi il ruolo avuto dai consorzi delle cooperative che sono riusciti a garantire un reddito maggiore ai produttori. Tuttavia questo stesso sistema se da un lato si è dimostrato molto resiliente dal punto di vista economico, non lo è dal punto di vista ambientale in quanto fortemente limitato nella propria capacità di nutrire i sui abitanti con cibo “buono pulito e giusto”, perché orientato sostanzialmente verso due grandi monoculture. Per migliorare questo sistema vanno fatte crescere le alternative, che peraltro a mio modo di vedere dovrebbero essere viste almeno inizialmente complementari, non sostitutive.

Mi puoi parlare della Comunità a supporto dell’agricoltura in Trentino (CSA)?

La CSA nascono negli anni ’70 come associazioni tra produttori e consumatori che cercano di trovare dei punti di equilibrio tra l’interesse di nutrirsi bene e quello di produrre e vendere bene. A Trento la CSA Naturalmente è nata da pochi mesi. Non è l’unica né la prima nel territorio. 

Naturalmente nasce subito dopo, e come conseguenza, delle relazioni createsi tra alcuni produttori e alcuni “mangiatori” durante il lockdown. È una CSA un po’ particolare perché chi è coinvolto sa anche di essere parte di un luogo di “ricerca”, nel senso che oltre a portare avanti l’attività economica di scambio tra produttori e consumatori, stiamo anche studiandone il funzionamento, per vedere cosa facilita e/o rende difficile un tipo di consumo e produzione più pianificato. Ad esempio abbiamo appena distribuito dei diari alimentari alle 32 famiglie che ne sono coinvolte. Alle famiglie è stato chiesto di appuntare per due settimane ciò che acquistavano nella CSA e fuori. L’obiettivo è di avere un’idea di cosa i produttori potrebbero produrre per soddisfare questa domanda e quindi andare verso una maggiore “diversificazione” della produzione. Abbiamo già per esempio notato che i 13 produttori che fanno parte della CSA producono poca frutta, generalmente mele. Le famiglie della CSA, soprattutto se riusciranno a crescere in numero, potrebbero anche impegnarsi ad acquistare delle piante, ad esempio, da frutto, in modo che questi produttori aumentino la diversificazione interna all’azienda e riescano a soddisfare l’approvvigionamento. 

Possiamo chiamarlo un esperimento quindi?

Preferirei chiamarla “comunità di pratica”. Noi ricercatori cerchiamo di capire quali sono i problemi dei consumatori e dei produttori e anche l’impatto della logistica ma impariamo esattamente come tutti i soggetti coinvolti… impariamo modificando i nostri consumi, perché anche noi siamo soci della CSA. Pensa a come potrebbe rafforzarsi l’idea se riuscissimo a coinvolgere anche gli amministratori comunali, ovvero chi governa il nostro territorio, che spesso parla di sostenibilità e di transizione ecologia, ma senza provare concretamente a fare qualcosa, partendo da sé, dalla propria quotidianità e stile di vita.

Per esempio, partecipando alla CSA, si renderebbero conto delle difficoltà, e magari potrebbero aiutare a trovare delle soluzioni in termini di facilitazione della logistica… Quindi in questo caso la nostra CSA è più una comunità di pratica. Altrove, sono delle interessanti forme organizzative che prendono avvio su progettualità orientate a principi di autorganizzazione non gerarchica e di solidarietà, che hanno come fine l’autoproduzione di cibo sano, locale e sostenibile.  Oltre a ciò, la nostra CSA è un esperimento che prova a mettere in pratica determinate idee per vedere che difficoltà ci sono e per capire come superarle. 

Personalmente mi sono già resa conto di spendere molto meno, anche per una migliore pianificazione, per il mio approvvigionamento di verdura. Anche altri consumatori della CSA hanno la stessa identica percezione, ora dobbiamo raccogliere i dati per vedere se è una percezione reale o meno, per capire se fare la spesa in questo modo fa risparmiare, al contrario di quanto si è soliti pensare; mi piace l’idea che la nostra CSA potrebbe produrre evidenze empiriche capaci non solo di capire meglio il funzionamento di queste esperienze ma anche per migliorarne le pratiche e la loro capacità di autosostenersi e quindi di durare nel tempo. 

Dimostrare che mangiare sano non solo è possibile ma fa risparmiare sarebbe rivoluzionario…

Si, diciamo però che la CSA è impegnativa. Però può dare all’amministrazione delle idee per cercare di estrapolare da questi esperimenti quei meccanismi che funzionano e rendere la sostenibilità una idea praticabile per tutti. 

Per esempio?

Oggi non a livello comunale, ma a livello provinciale si è fatto un grande investimento sul progetto INDACO, una piattaforma locale di e-commerce di prossimità. Queste piccole sperimentazioni possono individuare dei meccanismi che magari una piattaforma come INDACO può adattare, per estenderne la portata. Sulla questione della filiera corta, questo esperimento che stiamo facendo con la CSA può essere anche food for thought per INDACO, qualcosa che aiuta anche a pensare, in particolare sul grande tema della logistica. 

Come funziona operativamente il CSA?

Ci si trova tra produttori e consumatori una volta alla settimana, il lunedì dalle 17.30 alle 19.30. Disponiamo di una piattaforma digitale che si chiama Agorà Gas, sviluppata all’interno dei GAS, e in quella piattaforma entro il giovedì i produttori caricano i loro listini. Noi “mangiatori” tra il giovedì e il sabato facciamo gli ordini e il lunedì ci si trova per il ritiro. Il luogo è molto bello, in una serra messa a disposizione da una produttrice della CSA, i produttori hanno sistemato degli scaffali recuperati da qualcuno che li avrebbe altrimenti buttati via. Ognuno di noi ha il suo posto nello scaffale e i produttori hanno la lista dei prodotti che abbiamo ordinato. Quindi non fanno che sistemare le cassette con i prodotti sugli scaffali, noi arriviamo e ce le portiamo a casa. Dato che arriviamo più o meno tutti nello stesso momento ci si conosce, ci si parla, si organizzano degli assaggi. Abbiamo anche un gruppo Whatsapp. Insomma, si creano forme di socialità, che poi sono anche quelle che ti legano, nel senso che da queste forme di socialità nasce anche una responsabilità verso il produttore, verso il prodotto (che si “butta via” con più difficoltà) e il territorio e si innescano pensieri in controtendenza rispetto all’individualismo tipico della società in cui viviamo e l’essere in gruppo serve a trovare soluzioni. Esperienze come queste sedimentano sentimenti di responsabilità. E il fatto che l’amministrazione comunale stia promuovendo questa esperienza, attraverso i propri canali social, rappresenta un fatto importante, non facile da trovare in altri comuni in Italia. Insomma, la sostenibilità è raggiungibile solo se fatta “in comune”!